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Capitolo 1

 

E con questo fanno due.

Due cadaveri nel giro di tre giorni.

Assassinati.

Era da qualche tempo che a Milano non venivano trovati dei morti ammazzati.

Forse era solo la quiete prima della tempesta.

Se non fosse per un piccolo ma tutt'altro che insignificante dettaglio in questi due delitti non ci sarebbe nulla di strano; Milano ormai è una città violenta e, di quando in quando, qualcuno decide di far fuori qualcun altro. Papponi che picchiano a morte prostitute senza protettori, spacciatori che ammazzano i concorrenti per il controllo di territori sempre più vasti, rapinatori che si fanno prendere la mano ed eliminano le loro vittime. Potrei citare decine di casi come questi per i quali personalmente nel passato ho seguito le indagini. E arrestato i colpevoli.

Oppure potrei ricordare situazioni di degrado di un'umanità che a stento si riconosce in se stessa: madri che abbandonano a morte certa bambini appena partoriti in condizioni precarie, figli che accoppano i propri genitori per le questioni più insignificanti, ragazzini che gettano sassi dai cavalcavia sulle auto di passaggio.

Ma qualunque sia la causa o la motivazione il risultato è sempre uno e uno soltanto: cadaveri che approdano sul tavolo del medico legale.

Accosciato con i gomiti appoggiati sulle ginocchia e perso in questi luoghi comuni sul decadimento della società osservo il corpo disteso sul pavimento davanti a me.

Giace riverso supino in un mare di sangue.

Il suo.

Poi sollevo lo sguardo verso uno degli agenti in attesa delle mie istruzioni.

"Nessuna traccia della testa?", gli domando.

Il ragazzo scuote il capo lentamente. È giovane, probabilmente non ha mai visto nulla di simile. Il pallore sul volto indica quanto sia vicino al limite di sopportazione.

Non riesce a parlare.

E tuttavia non riesce nemmeno a distogliere gli occhi, affascinato e morbosamente attratto dall'orrendo taglio con il quale l'omicida ha reciso la testa della propria vittima, quasi fosse un trofeo da collezionare.

Mi rialzo in tutto il mio metro e novanta di statura e mi piazzo tra il cadavere e l'agente, interrompendo il suo contatto visivo con quel macabro spettacolo. Gli poggio una mano sopra la spalla.

"Vai a prendere un po' d'aria."

Il ragazzo annuisce, si volta e mentre si dirige verso l'uscio si calca il berretto della divisa sul capo. Lo guardo mentre apre la porta ed esce nella pioggia. È da qualche anno che in città nel mese di aprile piove quasi ininterrottamente. Un tentativo di ribellione di una natura maltrattata dal progresso? Quesito inutile.

Sterile.

Ho ben altri problemi da affrontare.

Come ad esempio quello di una mente squilibrata che se ne va in giro ad ammazzare e decapitare individui con incarichi di una certa rilevanza. Il primo, Enrico Grandi, era il direttore della Banca d'Italia.

Mentre il disgraziato riverso ai miei piedi, Giorgio Quattro, era il segretario del partito attualmente al governo.

Scrollo le spalle al presentimento che pian piano si sta facendo strada in me. La sensazione di essere di fronte ad un serial killer appena al principio della propria attività di morte.

Terminato il primo e sommario esame sul cadavere il patologo si rialza e mi viene accanto.

"Come l'altro", sussurra.

"La ferita d'arma da fuoco al petto ha causato la morte del poveretto. La testa è stata asportata in seguito. Con precisione quasi chirurgica."

Le sue parole sono un bisbiglio udibile solo da me. L'importanza politica della vittima non mi ha consentito di tenere lontani a lungo i giornalisti. Solo per il tempo necessario a raccogliere indizi e prove. Ora il salone brulica di gente con in mano microfoni, registratori e videocamere. Faticosamente tenuta a bada dagli agenti in servizio.

Non voglio ancora confermare pubblicamente di trovarci di fronte allo stesso uomo che due giorni fa decapitò il direttore della Banca d'Italia.

Perché di questo sono certo.

Due uomini importanti uccisi ognuno nella propria abitazione con un colpo di pistola al cuore. La loro testa asportata con una lama affilatissima. Non possono essere coincidenze. I due omicidi sono certamente riconducibili al medesimo individuo.

Una stretta delicata ma energica al gomito mi riscuote dai miei pensieri.

"Sapevo di trovarti qui, Marco".

È Paolo Ressi, il questore di Milano. Ho lavorato per anni alle sue dipendenze, prima come agente di pattuglia, poi come detective della omicidi e infine come commissario.

"Forse questo è il primo caso serio per la squadra di cui sei a capo da un paio di anni", dice.

Già, una task force praticamente segreta voluta dal governo per far fronte ai casi più disparati, misteriosi e difficili. Quelli in cui le normali forze investigative avrebbero immancabilmente segnato il passo. Una specie di servizio segreto con ampi margini di intervento, i cui limiti sono praticamente a mia discrezione. Posso disporre di risorse comunemente non rilasciabili alle regolari forze dell'ordine. Posso camminare molto vicino al confine della legge. E anche spostarlo in là, se questo è utile a raggiungere lo scopo.

Il comando di questa squadra, un pugno di individui ben addestrati, fu un premio a coronamento di una carriera all'interno della polizia segnata da una lunghissima serie di successi.

Ricordo ancora molto chiaramente il giorno in cui la figlia dell'attuale presidente del consiglio venne rapita, un paio di anni fa. Ricordo come il capo del governo, disperato, decise di creare il Corpo Speciale. Proprio per i miei successi venni scelto come comandante.

La salvai, Irene. Le salvai la vita ma non riuscii ad impedire che i rapitori, cinque slavi che tentarono di estorcere un riscatto esoso, la violentassero ripetutamente e a turno per tre giorni.

Salvai la vita di Irene.

Ma forse per lei sarebbe stato meglio se l'avessero ammazzata.

Perché oggi vive di incubi e medicinali.

Perché oggi sono l'unico uomo che riesce ad abbracciare, ogniqualvolta il presidente mi invita a cena durante i suoi soggiorni milanesi.

E ricordo anche il massacro che il Corpo Speciale appena costituito compì quando trovammo il covo dei rapitori. Fui il primo ad aprire il fuoco con la mia Magnum 44.

Cinque delinquenti, cinque colpi in totale esplosi dalle nostre armi. Un proiettile, un cadavere. Non avevamo mai lavorato insieme e non c'era stato tempo per addestrarci. Ma da quell'incursione capimmo che sarebbe nata una squadra affiatata e perfettamente bilanciata. Un organismo che poteva all'occorrenza divenire uno strumento letale.

Dopo quel brillante intervento il CS non venne più sciolto, nonostante le reiterate pressioni dell'opposizione che ci additava come dei killer legalizzati. E così io, colonnello Marco Trevis, mi ritrovai a segnare un altro successo sul calcio della mia pistola.

Successo nella sfera professionale in totale ed antitetica posizione rispetto ad una vita sentimentale disastrosa.

Paolo Ressi è ancora in attesa di un cenno da parte mia. Lo conosco bene; vuole sapere se mi sono già fatto un'idea sul caso.

"Sì, forse hai ragione. Ma anche il CS avrà delle difficoltà. Al momento non abbiamo in mano proprio nulla. Niente impronte, in apparenza nessun movente. E poi qual è il significato dell'asportazione della testa? Inoltre le vittime non avevano nulla in comune se non l'importanza pubblica delle loro professioni."

Il questore annuisce pensieroso.

"Cerchiamo di prenderlo in fretta", conclude mentre si dirige alla porta per poi varcarla. In fondo per lui il problema è marginale. Non tocca a lui questa grana.

Sposto lo sguardo sul salone. La mia altezza mi consente una facile visuale. Trovo la donna che cerco e lei, quasi consapevole del peso dei miei occhi, si volta verso di me. Un cenno appena ed è al mio fianco.

"Andiamo via Cristina. Qui non abbiamo più nulla da fare."

Cristina Neri è l'ultimo membro ad essersi unito al CS. Ed è la prima donna a farne parte. Al di là di questo è anche l'ultima donna ad essere entrata nel mio letto.

Capelli neri, occhi scuri e penetranti, fisico asciutto ma non troppo, muscoli perfettamente tonici. Fare l'amore con lei è quasi come partecipare ad una gara a chi si stanca prima.

Non la amo.

E forse lei non ama me.

Dico forse perché in fondo non glielo ho mai chiesto e lei non me lo ha mai detto.

Quando ho voglia di stare con lei le telefono. E se anche lei ha voglia di stare con me allora ci incontriamo. Da me o da lei. Indifferentemente.

Sono io ad avere impostato il nostro rapporto in questo modo. Lei non pretende di più e io non le do di più.

E forse non sarei nemmeno in grado di farlo.

Mi sono sempre chiesto se una donna possa perdonare un uomo per ciò che è solo perché a letto le fa provare emozioni ed un piacere fisico che mai avrebbe pensato fossero possibili. Ma questa, una tra tante, è una domanda destinata a rimanere senza risposta.

Non la amo.

Non la amo perché semplicemente non sono più capace di amare.

Oppure, ancora più semplicemente, non lo sono mai stato. Mentre ci fu un tempo in cui ero convinto di sì.

Cristina cammina al mio fianco sotto la pioggia mentre ci dirigiamo verso la mia vettura, una Subaru Impreza WRC, parcheggiata alla meno peggio all'interno del perimetro delimitato dal cordone di plastica steso dagli agenti. Poco meno di due ore fa eravamo a letto insieme, prima che io ricevessi la telefonata in cui mi veniva comunicato il nuovo omicidio.

Ora non parla, rispettando il mio riflessivo silenzio.

Forse non mi ama, ma certamente comprende con facilità i miei stati d'animo e vi si adegua prontamente.

Saliamo a bordo e mentre gli agenti ci aprono un varco tra la folla di curiosi imbocco a ritroso la strada che ci aveva condotto sul luogo del delitto.

Percorso qualche centinaio di metri decido di rompere il mio mutismo.

"Cosa ne pensi?"

"Un brutto affare. Davvero un bel problema. Due morti decapitati, nessun indizio, nessuna idea. Ancora non abbiamo rinvenuto la testa di Enrico Grandi. E dubito assai che ritroveremo quella di Quattro."

Cristina guarda dritto davanti a sé. La mascella serrata con forza evidenzia le vene sulle tempie e rende il suo viso un po' più duro. Un'espressione molto diversa rispetto a quando facciamo l'amore. In quelle circostanze il suo volto è teso, ma in modo molto differente ed eccitante. È teso verso il raggiungimento del piacere.

"Questi sono i fatti, Cristina. Io ho chiesto invece la tua opinione."

Lei si gira verso di me e sorride brevemente. Poi torna seria.

"Ci troviamo davanti qualcuno che non si fermerà facilmente. Qualunque sia il suo movente ha dimostrato di puntare allo scopo senza troppi indugi. Dalle testimonianze raccolte nei due casi sappiamo che entrambe le vittime non sono rimaste sole per lungo tempo. L'assassino ha quindi dovuto agire rapidamente: penetrare nelle due case, uccidere i due uomini con una pistola presumibilmente dotata di silenziatore e tagliare loro la testa per poi portarsela via. Magari in un sacchetto di plastica da supermercato."

Annuisco alle considerazioni di Cristina. Ma vado oltre.

"A mio parere non siamo di fronte ad una sola persona. Troppi i dettagli da organizzare per avvicinarsi così tanto a questi uomini perché un solo individuo possa farsene carico. È vero che le vittime non avevano una scorta, visto che i tempi del terrorismo sono passati. Ma erano pur sempre uomini in vista. Forse l'omicida materiale, l'esecutore, è uno solo. Ma la mente non è unica."

Cristina spinge in fuori il labbro inferiore. Fa sempre così quando è dubbiosa. Ma infine si arrende alla mia maggiore esperienza.

Ho quarantacinque anni e da oltre venti faccio lo sbirro. Dopo una laurea in sociologia che dovrebbe aiutarmi a capire dinamiche umane sempre più contorte. Dovrebbe aiutarmi, ma in realtà non è così.

Cerchiamo sempre di ricondurre tutto a schemi semplificati dentro i quali racchiudere le nostre pulsioni con l'illusione di poter anticipare le mosse di qualsiasi individuo. O perlomeno di poterne comprendere le motivazioni quando uno qualunque devia dal modello che gli abbiamo appiccicato addosso.

Ma poi salta fuori la mente squilibrata che spara al cuore di due personaggi illustri e li decapita, portandosi via la loro testa. E i nostri schemi, i nostri sistemi, vanno a farsi fottere.

Una volta di più scuoto il capo davanti alla mia difficoltà di comprendere. Eppure sono a capo del CS, sono l'uomo che più di ogni altro ha diritto alla carica per abilità deduttive, capacità logiche e qualità umane.

Qualità umane.

Le mie labbra si piegano in un sorriso amaro.

E ancora una volta torno a pensare ad Anna.

Mia moglie.

Morta suicida perché non sopportava più il dolore causato dal peso del rimorso per avermi tradito.

Questo scrisse nella sua lettera d'addio.

Ma non fu solo la sua morte a farmi soffrire. Non fu solo il suo tradimento a tagliarmi il cuore.

A farmi morire dentro fu anche e forse soprattutto la mia incapacità di comprendere cosa ci stava accadendo. A farmi abbandonare per sempre un pezzo di me. A seppellirlo accanto ad Anna, nella stessa bara.

In un momento in cui io riconoscevo me stesso solamente dentro il mio lavoro fatto di indagini, interrogatori e analisi scientifiche non ero stato in grado di capire il progressivo disfacimento della nostra unione. Preso come ero dalla mia carriera e a contatto per dodici ore al giorno con delinquenti di ogni specie, quando rientravo a casa smettevo di pensare.

Semplicemente.

Non avevo più voglia di parlare, di comunicare.

Non avevo più voglia di ascoltare.

Fu così che iniziai a perdere Anna.

Lei si trovò un altro uomo ed io, se anche ebbi il sospetto di quanto stava accadendo, non trovai la forza di oppormi. Di riscuotermi dal torpore atavico in cui ero ormai precipitato. Di correre incontro ad Anna mentre lei cercava di farsi salvare.

Finché una sera, di ritorno a casa, la trovai morta dentro l'automobile chiusa nel box con il motore acceso.

Lasciai il nostro appartamento ma non portai mai via le mie cose. Sono ancora tutte là.

È straordinario quanto in determinate situazioni sia semplice rinunciare a cose ed abitudini un tempo ritenute indispensabili. Stupefacente capacità di adattamento.

Non portai mai via le mie cose perché mi sembrava che, se lo avessi fatto, ogni volta in cui avessi preso un oggetto avrei perso un pezzetto di me anziché recuperarlo. Perché lasciandole dove erano avrei per sempre rinunciato a loro, ma non al loro reale significato, al loro contenuto di una vita vissuta insieme.

Quando "insieme" aveva ancora un senso.

Cristina sfiora delicatamente la mia mano posata sul pomello del cambio. Il suo tocco come in un film accelerato fa scorrere dieci anni di vita e in una frazione di secondo mi riporta al presente.

La radio è sintonizzata sul notiziario. Il giornalista sta commentando l'ultima rapina compiuta dalla "banda di Star Trek", come ormai vengono chiamati questi assaltatori di banche. Hanno il senso dell'umorismo, in fondo. E fanno sembrare agli italiani di trovarsi sul set di un film americano. Questa è la terza banca che svaligiano indossando le maschere dei protagonisti di Star Trek: Kirk, Spock, Sulu e McCoy. Non manca proprio nessuno. Quattro uomini che nell'arco di tre mesi hanno messo in scacco la polizia. Il CS non è stato ancora incaricato delle indagini, ma penso che l'ordine non tarderà a giungere.

Cristina mi gira la domanda di poco prima.

"Cosa ne pensi?"

"Sono ben organizzati. Hanno colpito tre banche della periferia di Milano facendo un lavoro pulito. Nessuna sparatoria, nessun ostaggio. E finora si sono portati via sei milioni di euro. Non male. Ma per ora non pensiamoci. Abbiamo altro su cui lavorare."

Senza esserne cosciente ho guidato fino alla via dove vive Cristina e ho arrestato la Subaru sotto il portone di casa sua. Mi giro verso di lei. Mi sta guardando con aria interrogativa.

"Scusami. Ho bisogno di stare da solo", rispondo alla sua muta domanda.

Cristina annuisce bruscamente, apre lo sportello ed esce nella pioggia senza salutare.

L'ho ferita.

Ancora una volta.

Resto per qualche secondo con la fronte poggiata sul volante. Poi risollevo la testa, ingrano la prima e riparto.