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Alzo il viso verso il cielo, le palpebre calate.

Avverto il calore del sole al tramonto scaldarmi la pelle e trasmettermi tutta la sua energia.

Una lieve brezza mi scompiglia i capelli e mi solletica i peli della corta barba.

Il suono delle onde del mare che si infrangono lievi sulla battigia è disturbato dalle grida giocose di bambini felici e mai stanchi di rincorrersi nella sabbia e nell’acqua salata. Le note di una canzone di tanti anni fa arrivano ad intervalli irregolari stabiliti dalla bizzarria del vento. La voce alta e stentorea del venditore di cocco mi porta sulla lingua il sapore dolce di quel frutto esotico e dissetante.

Il profumo della salsedine e dello iodio disciolti nell’aria e mischiati all’odore artificiale delle creme solari mi penetra le narici, allargando i miei polmoni per far entrare ad ogni respiro ossigeno caldo e vitale.

Gli occhi ancora chiusi, immagino il paesaggio di fronte a me: il sole basso tagliato dalla linea dell’orizzonte, il suo riflesso giallo ocra sullo specchio increspato del mare solamente un po’ più blu del cielo, qualche gabbiano spensierato e libero in un volo senza méta, piccole barche a vela perse tra le onde.

La mano della donna al mio fianco mi sfiora il viso in una tenera carezza. Allora inclino la testa da quella parte per sentire di più il suo contatto.

Poi sollevo le palpebre, ma i miei occhi non registrano alcuna informazione.

Nessuna immagine.

Posso solamente attingere colori e contorni da ricordi sempre più sbiaditi di un’adolescenza lontana quanto l’incidente che mi rubò la vista e la giovinezza.

I miei occhi non funzionano più.

Ma per qualche strano motivo sono ancora la fonte dei ruscelli di lacrime salate come il mare che ora bagnano il mio viso e che il calore di nessun sole potrà mai inaridire.