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Papà non Farmi Male

 

Lo trovarono così, morto come era vissuto.

Appesa al viso una maschera di apparente serenità.

Come l’espressione di un uomo finalmente in pace con se stesso.

Lo trovarono così, suicida nella vasca di una squallida stanza da bagno di uno squallido hotel.

Il commissario incaricato delle indagini non era affatto sorpreso. Aveva visto decine di casi come quello. Non era sorpreso, no. Ma questo non gli impediva di rimanere toccato, ogniqualvolta doveva indagare su un caso di suicidio. Avevano trovato una lettera, inequivocabilmente la lettera di un uomo che non ce la fa più ad andare avanti.

Sulle base di quelle ultime parole il commissario stava cercando di immaginarsi le ragioni e le emozioni che spingono un uomo a compiere un gesto tanto coraggioso e tanto codardo al tempo stesso.

Forse togliersi la vita era stata la cosa migliore che quell’uomo avesse fatto nella sua misera e spoglia esistenza. Quello era stato l’ultimo, disperato tentativo di farsi amare da chi aveva amato.

Perché le persone che aveva amato erano anche quelle che aveva fatto soffrire di più.

Come potevano, loro, immaginare che in lui si celava un male oscuro, quando anche egli stesso ignorava questa atroce verità? Una bestia nera che sarebbe uscita nei momenti difficili, nei giorni di cupa depressione, a sfogare una rabbiosa frustrazione nei confronti di una vita che gli appariva inutile, sempre più inutile. Una bestia che lo aveva consumato dentro a poco a poco, che si era nutrita della sua anima, divorandogli il cuore, sottraendogli quel poco di buono e di bello raccolto con fatica nel corso degli anni.

Sua moglie era sempre rimasta al suo fianco, sposa devota e madre straordinaria per i loro due figli. Forse era rimasta per loro, per proteggerli, per dare loro una parvenza di vita normale.

Una famiglia, un padre ed una madre ad educarli.

E forse lei aveva sempre difeso il marito contro ogni logica, contro ogni saggio consiglio che le suggeriva di fuggire da lui, di scappare lontano portandosi via i bambini. Ma lei, con coraggio ed ostinazione, era rimasta nutrendo la speranza che lui potesse, un giorno, tornare quello di un tempo.

Sì, il commissario ne era convinto. Le cose, fin qui, erano andate proprio in questo modo.

Tuttavia l’uomo ora vanificava il sacrificio della sua compagna lasciandola sola a crescere i loro figli. Vanificava il sacrificio con quello che forse lui riteneva in realtà il proprio ultimo atto d’amore. L’ultima buona azione di quella parte di sé che sempre più frequentemente rimaneva nascosta, soverchiata e schiacciata e piegata alla volontà della bestia nera.

Il commissario immaginò la donna ed il suo dolore quando, da lì a qualche anno, avrebbe consegnato la lettera del padre suicida ai figli, ormai grandi e pronti ad accettare quel fatto. Ormai grandi e più preparati a comprendere il pazzo mondo in cui viviamo.

Immaginò anche i due ragazzi, forse già uomini, a leggere quelle parole.

Parole scritte per dire che il loro padre si era ammazzato perché non poteva più vivere con il ricordo di voci supplichevoli a martellargli insistentemente l’anima: “Ti prego, papà, non farmi male, non farmi male…”

Ma quelle parole non avrebbero mai cancellato dai loro cuori il ricordo delle violenze subite.

Il commissario, per esperienza, sapeva anche questo. E continuò a ricostruire nella sua mente la storia di quell’uomo.

Forse aveva provato, prima di giungere a quella tragica soluzione, a controllarsi, a rifuggire dagli atteggiamenti violenti.

Senza risultato.

E pensare che la nostra società, oggi al culmine della propria civiltà, avrebbe dichiarato che la colpa non era solamente sua, che anche lui era una vittima esattamente come i due bambini. Che se si comportava così era perché aveva avuto un’infanzia travagliata difficile violenta.

Ma, pensava il commissario, lui non si era piegato a questa logica. Non se l’era sentita di attribuire ad altri colpe e responsabilità invece pesantemente sue. Non aveva potuto e non aveva voluto sottrarsi ad esse.

Forse perché in quel modo si era aggrappato anima e corpo, disperatamente, a quel poco di dignità che gli restava ancora. E forse, per quel poco più di niente, sentiva di potersi considerare ancora un uomo.

Un uomo che lotta con coraggio contro la bestia nera.

Un uomo che vince la propria guerra.

In un modo o nell’altro.

Il commissario piegò la testa, la lettera del suicida ancora stretta tra le mani. Abbassò lo sguardo sul cadavere e provò un moto di rispetto per la scelta dell’uomo. Perché non avrebbe mai potuto porre rimedio a tutto il male che aveva fatto in passato. Ma avrebbe potuto evitare di farne ancora.

E così, come un chirurgo, nel recidersi le vene in quello squallido bagno di quello squallido hotel l’uomo aveva estirpato il cancro che aveva devastato la vita delle persone amate.

Il commissario uscì dalla stanza da bagno.

Non c’era più niente da indagare, più niente da capire.

Era solo necessario avvertire i familiari.