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Le Dimissioni

 

“Ciao Sergio, ho urgenza di parlarti”, esordisco appena il responsabile del nostro gruppo entra nello stanzone, pronto a cominciare una nuova giornata di lavoro. Con un linguaggio che profuma d’antico potrei definirlo ‘capufficio’. Ma è un termine obsoleto. Tutto, oggi, è più moderno, anche i rapporti interpersonali tra il ‘capo’ ed i ‘collaboratori’. Al capo ci si rivolge dandogli del tu. Anche se meno formalità, a volte, facilitano pure gli insulti. Pericoloso.

Sergio ha qualche anno più di me. Quindi anagraficamente non è molto più vecchio, ma di anzianità aziendale sulle spalle ne ha parecchia di più. Ma questo in sé non basterebbe a fare di lui il nostro responsabile. Siamo in tanti a chiederci come mai in quella posizione non ci sia una persona più meritevole. Sergio non solo manca di competenza specifica per il lavoro che svolgiamo, ma non è neppure dotato di quel carisma necessario a sopperire alla prima carenza. Infatti un buon capo o è competente egli stesso oppure si circonda di persone competenti e si affida al loro giudizio. Insindacabilmente. Facendole sentire davvero utili al progetto comune di un’Azienda che vuole continuare a crescere.

Sergio, invece, è deficiente in entrambi gli aspetti. Capisce poco di tecnica e non si fida assolutamente di ciò che noi facciamo. E questo perché gli manca un’altra caratteristica che un leader dovrebbe avere: la capacità di stimare il valore delle persone. Nonostante tutto ciò lui è il nostro capo. ‘Radio Corridoio’ dichiara che è un raccomandato. Storia vecchia, anche quando le cose erano più formali. Bisogna tuttavia riconoscergli una grande abilità politica, volta al costante miglioramento della propria posizione all’interno della Società. Ovviamente a scapito della crescita di noi subalterni.

Sergio mi guarda, ancora con indosso il soprabito. Leggo un’ombra di paura sul suo volto: è l’ultimo del mese ed è terrorizzato ogni volta che qualcuno gli vuole parlare proprio quel giorno. Perché oggi, insieme al 15 di ogni mese, è una scadenza invalicabile per presentare le dimissioni. Tanti si divertono con quel giochetto, solo per vedere il panico dipingergli sul viso una maschera buffa. Però poi gli parlano di quisquilie e lui si tranquillizza. Ma oggi mi fa pena, quasi. Perché io, invece, ho appena stampato la mia lettera di dimissioni:

“Spett.le Azienda...” Va bene evitare le formalità, ma fino ad un certo punto. La lettera è scritta in ‘burocratese’:

“... con la presente sono a comunicarVi che rassegno le mie dimissioni. Vi comunico altresì che, in virtù del periodo di preavviso da me dovuto e previsto dal CCNL, mi considererò libero da qualsiasi impegno nei Vostri confronti a partire dal...

È gradita l’occasione per porgere distinti saluti.”

Sergio continua a fissarmi. I suoi occhi, per un brevissimo istante, volano al foglio che tengo piegato tra le mani. La mascella gli casca, il viso si fa pallido. Ha tanti difetti, ma non è stupido. Ci sono state troppe discussioni tra noi relative al mio lavoro, ai risultati che ho ottenuto, alle gratificazioni promesse ma mai elargite perché lui non sia giunto alla inevitabile conclusione che, presto o tardi, me ne sarei andato.

“D’accordo”, mi dice. “Dammi qualche minuto e poi troviamo un posto dove stare tranquilli”.

Decido di non concedergli più di dieci minuti. Non voglio che abbia il tempo di preparare un discorso logorroico per cercare di dissuadermi. Se non mi concede udienza entro breve sono disposto a recarmi direttamente all’Ufficio Personale a depositare la mia lettera. Solo, mi sembra corretto comunicarlo prima a Sergio.

Ma due minuti prima dello scadere del termine si presenta davanti alla mia scrivania. Scoviamo una stanzetta vuota e senza finestre. Tre sedie ed un tavolo microscopico. Gli consegno la lettera, chiedendogli di firmarla ‘per ricevuta’, una garanzia per me che il periodo di preavviso venga computato correttamente. La legge rapidamente, la appoggia sul tavolino e la fa scorrere verso di me, senza apporre la sua firma sotto la dicitura ‘per ricevuta’.

“Prima facciamo quattro chiacchiere”, mi dice.

Appena comincia a parlare mi rendo conto di averlo sottovalutato. Del resto non dovrei stupirmi. Sergio ha costruito la propria carriera e la propria posizione sulle parole più che sui fatti. In fondo un po’ lo ammiro. È un funambolo dei vocaboli, è abilissimo nell’inanellare termini, verbi, avverbi e aggettivi in frasi di senso compiuto dal punto di vista lessicale, ma assolutamente prive di qualsiasi contenuto. Ha sbagliato mestiere. Doveva dedicarsi alla politica, quella con la "P" maiuscola. Mentre continua a muovere le labbra mi torna alla mente la frase di un mio collega: “Raramente uno che parla tanto è un buon tecnico”. Sergio non si sforza minimamente di essere un’eccezione a quella regola non scritta, vera e propria perla di saggezza.

Sono più di trenta minuti che non tace. Sembra che nemmeno prenda fiato. Concludo che deve essere una specie di macrorganismo anaerobico. Non lo ascolto più e penso ai fatti miei. Ad un tratto il silenzio cala nella stanzetta. Lo guardo. Sergio sta aspettando una risposta da me. Per fortuna il mio cervello ha registrato in background la sua domanda.

“No, non è solo una questione economica. Ci sono altri problemi che mi impediscono di continuare a lavorare qui.”

Vacilla. È ovvio. Se fosse stato un puro fatto di soldi la questione si poteva appianare più facilmente. Sarebbe stato un mercanteggiare la cifra come si fa quando si acquista qualcosa nei paesi arabi. Ma altri problemi possono toccare aspetti gerarchici, funzionali, anche burocratici. Un problema a più livelli, che sfugge al controllo, che si espande insidioso, magari ad altri che si trovano in condizioni analoghe alla mia.

Gli spiego tutte le mie motivazioni e mentre parlo Sergio mi appare come un bambino che non vuole ascoltare. Come un bambino che si tappa le orecchie e cantilena: “Non ti sento, non ti sento, non ti sento.” Ci manca solo che, alla fine del nostro colloquio, faccia sparire le mani all’interno delle maniche della giacca e attacchi con una vocetta da moccioso dispettoso: “Non ho le mani, non ho le mani, non posso prendere la tua lettera.”

Queste immagini mi fanno sorridere dentro, mentre cerco di mantenere un atteggiamento serio. Io ho finito. Per me il colloquio è concluso. Ma per Sergio no. Riattacca il suo discorso, cercando di sminuire le mie ragioni, presentando confutazioni contraddittorie in più punti. In fondo lo capisco. La perdita di un collaboratore è un insuccesso, anche personale. Ma mi annoia. Cerco di distrarmi pensando a quello che dirà al prossimo corso per manager, uno di quelli in cui ci si fa belli, raggiungendo quasi l’orgasmo, dicendo agli altri quante persone si hanno sotto di sé, ai propri ordini. Dovrà mentire, questa volta. Se già non lo ha fatto in precedenza.

Sbircio l’orologio. Sono passate più di due ore da quando ci siamo rintanati in quella stanzetta. L’aria manca già da tempo, ma ormai le mie funzioni vitali sono ridotte al minimo di uno stato letargico. Sto divenendo pure io anaerobico. Sono quasi tentato di ritirare le dimissioni, pur di farlo tacere. Ma non cedo, non voglio capitolare per fatica.

Allo scoccare della terza ora mi chiede speranzoso e con un sorriso ebete dipinto sulle labbra:

“Allora, ti ho convinto?”

“No”, è la mia risposta secca. Per un momento ho il terrore che ricominci a parlare. Nel mondo si discute di armi chimiche, batteriologiche, nucleari. Ma non si accenna nemmeno al logorroico potere distruttivo delle parole vuote. Mandate Sergio a Baghdad con un megafono, e convertirà i musulmani al cattolicesimo. Nemmeno i kamikaze sapranno resistergli. Al limite si faranno saltare in aria uccidendo solo se stessi, pur di non sentire più la sua voce.

Lo guardo in tralice, ormai sono prostrato sulla sedia. Mi formicola il fondoschiena, ho bisogno di muovermi. Nemmeno il volo Parigi-Tokyo mi aveva devastato nel fisico come quelle ore di monologo. Ma Sergio, apriti cielo!, tace. Credo di avere vinto, ma mi sbaglio. Prende la lettera, me la porge.

“Pensaci ancora questa notte”, mi dice. “Ne riparliamo domani.”

Non sono lesso fino a questo punto.

“No”, gli rispondo. “Prendo questa lettera solo se tu la firmi. È una questione burocratica sul computo del preavviso, e tu dovresti saperlo. Se non sottoscrivi vado all’Ufficio Personale a consegnarla. Poi, se proprio vuoi, domani ne riparliamo.”

Sergio firma. Preferisce che la questione rimanga ancora tra noi due. Ho vinto questa battaglia.

Ma domani tornerà alla carica con tutte le nuove e assurde argomentazioni che la notte gli suggerirà.