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La Donna delle Pulizie

 

Arriva tutte le sere, più o meno alla stessa ora.

“Buona sera, ingegnere”, mi saluta. È sempre cordiale.

“Buona sera, signora”, rispondo alzando gli occhi dai fogli zeppi di formule e numeri che affollano la mia mente e la mia scrivania. Qualche volta la donna è più ciarliera, altre è di pessimo umore ed io ho imparato che in queste occasioni è meglio stare in silenzio. Mi adeguo, cercando di assecondarla.

Questa sera ha voglia di parlare. È in queste circostanze che sono venuto a conoscere alcuni frammenti della sua vita. Due figli piccoli, un marito che l’ha lasciata qualche anno fa, tanti problemi nell’arrivare alla fine del mese con il magro stipendio di donna delle pulizie. Ho anche imparato che vige, nell’impresa per la quale lavora, la gerarchia non scritta tipica della vita di caserma: ai ‘nonni’ non tocca mai pulire i gabinetti. Quel compito viene affibbiato ai giovani. Così io ho visto quella donna fare carriera, da quando la incontravo, appunto, nei gabinetti dove mi recavo nel tardo pomeriggio prima di avviarmi verso casa, fino a questi giorni, in cui il suo compito è quello di svuotare i cestini per poi passare ad una sommaria pulizia dei pavimenti.

Questa sera sono rimasto da solo in ufficio. I miei colleghi sono tutti andati a casa, mentre io devo restare fino a tardi, forse anche dopo cena. La donna sta ribaltando il contenuto del mio cestino dentro il sacco della spazzatura:

“Ha tanto lavoro da fare questa sera, ingegnere?”, mi domanda.

“Eh sì, signora. Come sempre, in questo periodo”, rispondo.

Indugia nei pressi della mia scrivania. Alzo lo sguardo sul suo volto. Lei mi fissa per un attimo, poi sorride:

“Dopo il lavoro, più tardi, andrò in discoteca”, mi comunica, entusiasta.

“Sa, faccio ancora la mia bella figura, quando mi vesto bene”, continua. “Certo che, conciata così...”. Non termina la frase. Io abbasso il viso sui miei fogli per nascondere un sorriso ironico che sta piegando le mie labbra. Secondo il mio giudizio maschile, perché questa donna possa essere attraente ci vuole ben altro che un buon vestito. Torno a guardarla negli occhi. Forse lei si aspetta un complimento. Ma io penso che lei non sia mai stata bella, nemmeno prima dei due figli, neppure quando pesava dieci chili di meno. Neanche quando era più giovane. Mi nascondo dietro una battuta spiritosa, cercando di spingere la conversazione in un’altra direzione:

“In tutta la mia vita sono stato poche volte in discoteca”, dico. “Non vedo perché devo pagare per farmi trapanare le orecchie”, concludo.

Lei alza le spalle e s’incammina verso la porta dell’ufficio. Poi si volta nuovamente verso di me:

“Ha ragione. Ma è il solo modo che ho per conoscere gente. Uomini”, mi dice. “Senza che loro siano necessariamente al corrente del mestiere che faccio per vivere”. Colgo una nota malinconica nella sua voce. Fa un lavoro umile, e sembra vergognarsene. Qualunque cosa le dicessi in questo momento sembrerebbe retorica pura.

“Si diverta anche per me, allora”, controbatto, fingendo un’allegria che non provo.

Esce, mormorando un “grazie” e trascinando dietro di sé il sacco della spazzatura. Le spalle sono un po’ più curve. Non ci salutiamo ancora, perché ritornerà tra qualche minuto a spazzare il pavimento. La sento parlare nella stanza di fronte. Qualcun altro, come me, questa sera lavorerà fino a tardi. In quell’ufficio i colleghi sono più burloni, al limite della cattiveria. Sono mesi che sono riusciti a convincere la donna a dare l’acqua alla pianta che fa bella mostra di sé al centro del locale. Non rientrerebbe nelle sue competenze, ma lei lo fa volentieri. La cattiveria risiede tutta nel fatto che la pianta è finta, di plastica. E si vede da un miglio di distanza. Dovrebbero dirle che si sono presi gioco di lei, ma forse ormai è passato troppo tempo e nessuno più ha il coraggio di farlo.

Scuoto la testa con un sorriso amaro e torno ai miei numeri.