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Il Ragazzo che mi Chiamava Clo

 

Oggi penso a lui, dopo che sono trascorsi tanti anni. Penso a lui e non so spiegarmene il perché. Quali strani meccanismi s’instaurano nella mente, quando accadono queste cose? Forse che l’anima, nei momenti in cui entra in sintonia con i ricordi di una volta, richiama alla memoria anche sensazioni che a quel tempo non ci erano appartenute in modo diretto, ma solo come riflesso di altri spiriti? Penso a lui, adesso, e ricordo il profondo senso di inadeguatezza che mi aveva ispirato allora. Non la mia, d’inadeguatezza, ma la sua.

Era il primo giorno del Corso Addestramento Reclute, il famigerato CAR, il tanto temuto inizio dell’anno di naja. Era Gennaio e faceva freddo anche in quella località marittima della Liguria. Mi ero laureato tre mesi prima, quindi avevo un’età di gran lunga superiore alla media. Qualche giorno dopo scoprii di essere persino più anziano del tenente comandante della Compagnia. I caporali istruttori erano poco più che ragazzini; l’aggettivo che mi venne in mente allora per descriverli al meglio è “buffi”. Erano davvero ridicoli, al limite della comicità. Convinti che quello fosse il mondo vero e che quel minimo di potere potesse servire a farsi rispettare. Una delle reclute, una volta, attese uno di costoro fuori, alla libera uscita, e gli diede tante di quelle botte da fargli passare la voglia di fare il gradasso. Buffi. Durante tutto quel periodo di addestramento la cosa più difficile per me era non scoppiare a ridere, quando uno di questi mi urlava nelle orecchie, dicendo:

“Stai marciando di merda, soldato!”

Cosa mi importava di marciare bene o male? Nulla. Però posso capire che su una personalità, non dico meno forte, ma certamente meno matura e non ancora consolidata, certi atteggiamenti di abuso di autorità possano lasciare dei segni indelebili. Dicono che il servizio militare faccia bene. Forse è vero, a volte raddrizza un ragazzo. Ma altre volte lo può spingere nella direzione sbagliata, smuovendolo da un delicato equilibrio dal quale poi, magari, precipita senza fare ritorno.

Tutte queste cose, però, le imparai nei giorni successivi al primo. Perché il primo giorno fu di notevole impatto anche per me, mentre cercavo di guardare le cose con distacco. Senza riuscirci.

Vennero a prenderci alla stazione del treno con i camion militari. Tanti civili, tutti ragazzi, caricati nei cassoni come se stessero partendo per una missione. Fu nel tragitto dalla stazione alla caserma che capii cosa avrei odiato di più di quell’anno iniziato da poche ore: non sarei stato più padrone della mia vita. O perlomeno non avrei conservato nemmeno l’illusione di esserlo, perché, in fondo, nessuno è padrone della propria vita. Avrei mangiato, dormito, marciato in relazione alla volontà di qualcun altro. La mattina non avrei saputo cosa mi aspettava nel pomeriggio. Terribile.

Ci assegnarono i letti, rigorosamente a castello, e gli armadietti. Questi ultimi non erano a sufficienza per tutti, quindi bisognava condividerne uno in due. Due letti, un armadietto. Il mio compagno d’armadietto avrebbe dormito nel letto sotto il mio. Avrà avuto diciotto anni. Era alto dieci centimetri più di me e avrà avuto un peso oscillante tra i novanta e i cento chili. Era grande e grosso, ma aveva un’aria gentile. Ci presentammo, ma io ora non ricordo il suo nome. Lui prese subito a chiamarmi Clo. Chissà perché. Forse gli piaceva il suono della sillaba.

Clo.

Pensai che quel diminutivo sarebbe stato meglio addosso ad una ragazza, ma non glielo dissi. Mentre vuotavamo le nostre borse riversando il contenuto nell’armadietto, cominciò a parlare senza interrompersi un secondo, facendo una domanda qua e una là senza attendere una risposta, continuando a chiamarmi Clo. Era nervoso, teso. Lo si capiva benissimo. Io non parlai, e del resto non me ne diede mai l’opportunità.

Ma ascoltavo. A modo mio lo stavo ascoltando.

Ad un certo punto tacque. Si sedette sul letto, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa riccioluta tra le mani. Lo guardai e pensai che quei capelli, il giorno dopo, non sarebbero stati più al loro posto, recisi dalle sadiche forbici del barbiere militare. Non sapevo esattamente quando ciò sarebbe avvenuto. Ma sapevo per certo che sarebbe successo.

Era lì, in quella posizione, da non più di trenta secondi, quando arrivò il caporale. Il nostro caporale istruttore. Gli si piazzò davanti, gambe divaricate, pugni sul cinturone stretto ai fianchi, cipiglio incazzato nero, neppure un filo di morbida barba sul viso ancora devastato dall’acne.

Un coglione fatto e finito, insomma.

Con tutto il fiato dei propri polmoni gli urlò di alzarsi, perché quello non era un albergo. In quel momento appresi che in quella caserma non ti potevi sedere, nemmeno nelle ore di libertà. Nemmeno se, durante la libera uscita, decidevi di restare in caserma a leggere.

Non ti potevi sedere.

Io sarei scoppiato a ridere. Ma il ragazzo che mi chiamava Clo non riuscì a mantenere un atteggiamento dignitoso. Cominciò a piangere, facendo sgorgare dalla bocca del caporale fiumi di insulti, improperi, bestemmie. Una bocca controllata da un cervello non più grande di una noce.

Se ne andò, alla fine. Rosso in viso come un gambero. Almeno in quel modo le tracce dell’acne erano meno visibili. Se ne andò, probabilmente alla ricerca di un’altra vittima.

Gli altri avevano ripreso la silenziosa attività di sistemazione delle loro cose. Un tentativo di portarsi là dentro un pezzo di casa, un pezzo di cuore. Un po’ di calore e un po’ di colore. Io mi rifiutai sempre di farlo. Sia allora, sia nei mesi seguenti. Niente della mia vita doveva essere diviso con quel mondo, perché di quel mondo niente mi sarebbe mai appartenuto.

O perlomeno così pensavo a quel tempo.

Il mio compagno d’armadietto piangeva ancora. Mi sedetti accanto a lui, sul letto. Non sapevo cosa dire, ma speravo che la mia presenza potesse in qualche modo essergli di conforto. Era ormai l’ora della libera uscita. Gli proposi di andare a mangiare qualcosa nel centro del paese, distante quattro chilometri. Una bella passeggiata nell’aria fredda di quella limpida giornata di gennaio.

“No, Clo. Non mi va. Voglio stare qui, da solo. A dormire”.

Lo salutai. Tanto lo avrei rivisto dopo qualche ora, per il contrappello.

Rientrai prima di tutti gli altri commilitoni della camerata. Trovare un telefono pubblico libero era stata un’impresa. Erano tutti occupati dalle giovani reclute che, a intervalli di un mese, riempivano e vuotavano quel paese marittimo.

I cellulari cominciavano a fare il loro timido ingresso nel mercato italiano. Ma avevano prezzi realmente proibitivi, non certo alla portata di un ex studente. Chi avrebbe pensato, allora, che di lì a qualche anno ogni ragazzino avrebbe posseduto il proprio telefonino? Comunque riuscii a chiamare casa e ad ingurgitare un panino in un bar. Poi il freddo mi aveva convinto a rientrare.

Era ancora lì, il mio compagno d’armadietto. Sembrava non si fosse mosso affatto. Era ancora seduto sul letto con la testa tra le mani. Stava borbottando qualcosa che riuscivo a malapena a sentire:

“Dov’è il bagno, dov’è la mamma? Voglio la mia mamma…”

Non potevo credere che quel ragazzone potesse essere ridotto in quello stato.

La notte passò, in un modo o nell’altro. Dormire quando una persona di cento chili si agita nella branda bassa di un letto a castello non è una cosa facile. Ma ero distrutto e dormii un sonno senza sogni.

Le sei e trenta arrivarono anche troppo presto. Qualcuno mi disse che avrei dovuto presentarmi all’Ospedale Militare, perché la visita del giorno prima aveva evidenziato in me dei problemi visivi. Come se non lo sapessi. Porto gli occhiali da quando avevo quattro anni.

Passai tutta la giornata all’ospedale, per sentirmi dire quanto già sapevo. Quando rientrai in camerata scoprii che gli altri commilitoni avevano fatto conoscenza, durante quelle ore. Io cercavo il ragazzo che mi chiamava Clo. Ma non c’era. Anche l’armadietto, la sua metà, era vuota delle sue cose. Chiesi a qualcuno, ma nessuno seppe dirmi cosa fosse successo.

Solo qualche settimana dopo, alla fine del CAR, parlando con il tenente Comandante di Compagnia, quello più giovane di me, quello che avevo imparato a conoscere, almeno un po’, e ad apprezzare, scoprii cosa successe al mio compagno d’armadietto.

Il secondo giorno, quando ero all’ospedale, aveva reagito male ai commenti del caporale acneico. Gli aveva messo le mani addosso. Dopo qualche indagine e qualche visita medica più approfondita, il ragazzo che mi chiamava Clo era stato rispedito a casa per problemi psichiatrici.

Sul suo foglio matricolare ci sarà per sempre scritto: “Congedato ai sensi dell’articolo 41”.

Così oggi penso a lui, dopo tanti anni.

Il ragazzo che mi chiamava Clo non era adeguato alla vita di caserma.

E a volte mi chiedo se io sono adeguato alla vita che mi sono costruito, al mondo che mi circonda, alle persone che mi vogliono bene.

A volte mi domando se anche per me non esista un articolo 41, scritto da qualche parte.

Un articolo per l’esenzione dalla vita.