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Il Mare d'Inverno

 

C’impiegò più di mezz’ora a trovare la strada dove c’era la villetta a un piano di Giulio. La sera avanti aveva detto all’amico che l’indomani mattina sarebbe partito in macchina per Genova.

“Oh che bello!”, aveva esclamato Giulio.

“Quindi passi per Pineta Marittima?”

“Beh, dovrei fare una deviazione”.

“Una cosa da niente. L’anno scorso ho comprato una casetta a Pineta Marittima, lo sai, ci siamo stati quest’estate e io, ripartendo, mi sono scordato lì una valigetta. Mia moglie mi rompe l’anima, dice che le serve, ma io non ho ancora trovato il tempo... Fammi un favore, vacci tu. Ti do’ le chiavi, ti spiego tutto”.

Più di mezz’ora a girare per quel paesucolo che faceva stringere il cuore, abbandonato, forse caduto in coma. Niente di peggio, per l’umore, che un paese di mare durante l’inverno. E finalmente eccola lì, la villa, come gliela aveva descritta Giulio...

Una bella villetta. Niente da dire. Circondata da un giardino di discrete dimensioni, piantumato e ben curato. Giulio doveva spendere una cifra non indifferente per pagare il giardiniere. E sicuramente aveva sborsato una mezza fortuna per l’acquisto di quella che lui stesso aveva definito “casetta”.

Certo, la villetta era disposta su un unico livello, ma già dalla recinzione posta a circondare il giardino si potevano intuire le ampie dimensioni della stessa.

“La chiave dorata è quella del cancello”, aveva detto Giulio quando si erano incontrati dopo la telefonata.

“Porta dentro l’automobile, anche se ti devi fermare per poco tempo. La strada è stretta e di frequente transitano dei trattori”, aveva continuato l’amico.

Ora l’uomo stava lì, la vettura di traverso lungo la stradina con il muso puntato verso il cancello e il motore acceso.

Scese dall’auto, estrasse dalla tasca del pesante cappotto le chiavi della villa, cercò quella dorata ed aprì la pesante inferriata facendo ruotare le due ante sui cardini.

Guidò lungo il vialetto di accesso e fermò la vettura nell’ampio spiazzo ricoperto di ghiaia dinanzi la veranda.

Si guardò attorno. Davvero un bel posto. Tranquillo d’estate.

Anche troppo tranquillo d’inverno.

La stretta al cuore che aveva provato poco prima, mentre vagava in cerca della casa, lo riassalì con forza. E l’uomo si sentì solo e abbandonato, proprio come quel paesello.

Lasciato anche dalla donna da sempre amata.

Non poté fare a meno di pensare a Marina.

Gli aveva detto addio solamente due giorni prima.

“Non dobbiamo vederci più. Temo che Giulio cominci a sospettare”, aveva affermato.

Ed era stata irremovibile. Spietata come solo le donne sanno essere in certe situazioni, alle prese con certe decisioni.

Ripensò con amarezza ai tempi dell’Università, tanti anni prima, quando lui e Marina facevano coppia. Tutti i loro amici erano convinti che si sarebbero sposati, presto o tardi. Ma poi lei aveva scelto Giulio, chissà perché.

Anzi no, in realtà sapeva perfettamente il perché. Perché Giulio era diventato famoso, uno scrittore di successo già al suo primo romanzo. E ricco, come dimostrava la villa costruita sopra il terreno sul quale ora lui stava camminando a vuoto, tanto per far correre i pensieri.

Giulio aveva sempre molto tatto quando erano soli, loro due. Riferendosi a Marina diceva “mia moglie”, come la sera precedente al telefono. Non la nominava mai direttamente, forse per non evocare ricordi dolorosi nel cuore dell’amico.

Salì i due scalini che conducevano alla veranda sulla quale si apriva la porta di ingresso alla villa. Le mani affondate nelle tasche del cappotto, si sedette su una poltrona di plastica nonostante questa fosse ricoperta da uno strato di polvere incrostata dalla salsedine. Da lì si poteva vedere uno scorcio di mare e la confusa linea dell’orizzonte a separarlo dal cielo.

Il mare d’inverno.

Un concetto che il pensiero non considera, come canta Enrico Ruggeri.

Marina, Marina.

Marina.

L’aveva chiamata in ufficio due giorni prima per chiederle se lo avrebbe accompagnato a Genova, dove lui doveva recarsi per lavoro. Sarebbe stato impegnato per un paio d’ore. E dopo avrebbero potuto trascorrere il resto della giornata a Portofino.

Con lei l’inverno sarebbe stato meno freddo.

E il mare avrebbe attinto un po’ di colore dai ricordi dell’estate.

Invece Marina aveva addirittura troncato la loro relazione. All’improvviso, proprio come un paio di anni prima era divenuta la sua amante. Lui non aveva mai capito il perché di quel ritorno di fiamma; forse lei si era stancata di Giulio ma non dei suoi soldi; o forse voleva ritrovare gli anni della giovinezza, quando stavano sempre insieme e si divertivano.

Ma ora lei decideva di restare con Giulio.

Sono sempre le donne a scegliere in fatto di cuore, considerò.

Sempre.

Un’ultima occhiata al mare grigio azzurro e al cielo plumbeo. Poi si alzò, dirigendosi alla porta.

“La chiave più lunga è quella dell’ingresso principale”, aveva detto Giulio.

La trovò subito in mezzo alle altre. La infilò nella toppa e le fece compiere due giri completi. Poi spinse l’uscio ed entrò.

L’interno era buio. Gli scuri alle finestre erano chiusi e la tenue luce di quella giornata uggiosa non aveva energia sufficiente a penetrare le fessure nel legno.

Il passo lievemente incerto nell’oscurità si arrestò contro un oggetto pesante e duro posto sul pavimento. Mantenne a stento l’equilibrio, una mano ancora posata sulla maniglia della porta.

Si chinò per spostare l’ostacolo contro il quale aveva urtato. Al tatto gli parve di riconoscere la scultura di un quadrupede in posizione seduta, probabilmente realizzata in peltro. Forse veniva impiegata come fermaporta nelle giornate ventose. Fece scivolare l’oggetto sul pavimento, spingendolo contro il muro per evitare di inciamparci ancora.

“Il quadro elettrico principale è proprio sulla parete della porta, sulla sinistra. Alza l’interruttore generale e la luce nel soggiorno si accenderà”, gli aveva spiegato ancora Giulio.

Procedette con cautela e fece come gli aveva detto l’amico. Il locale fu inondato da una luce artificiale: un piccolo sole appeso al soffitto, nel centro della stanza.

Un piccolo sole artificiale in quell’inverno anche troppo reale.

Si guardò attorno. L’ambiente era accogliente, molto accogliente. Un pavimento in cotto trasmetteva un’idea di calore in inverno, ma non sarebbe apparso sgradevole d’estate. Un ampio camino sulla parete in fronte a quella dell’ingresso era circondato da due ampi divani, disposti ad angolo, davanti ai quali era posto un tavolino basso con ripiano in vetro.

Sul medesimo muro, molto più sulla destra, si apriva una porta, presumibilmente sulle camere da letto e sulle stanze da bagno, dato che a sinistra si intravedeva, attraverso un’ampia apertura sormontata da un arco, il mobilio tipico della cucina.

Sulla parete di destra era invece presente una porta finestra di proporzioni generose, che si apriva sul giardino e che serviva a dare luce al soggiorno.

“La valigetta che ho scordato è il beauty case di mia moglie. Non ricordo dove l’ho lasciato prima di partire, circa tre mesi orsono”, aveva affermato Giulio.

“Guarda un po’ in giro, non sentirti un intruso”, aveva concluso.

Si diresse verso la cucina. Prima di varcare la soglia cercò un po’ a tentoni l’interruttore della luce. Lo trovò e il buio di quella stanza fu squarciato dalla luce bianca e fredda di un neon.

Il locale era grande e ben attrezzato per essere una casa di mare, una “seconda casa”, come si usa dire. Anche qui Giulio dimostrava di potersi concedere dei piccoli lussi.

Si guardò in giro. Spostò le sedie poste ai lati del tavolo, caso mai l’amico avesse appoggiato la valigetta di Marina proprio sopra una delle seggiole. Nessuna traccia.

Di ritorno nel soggiorno e diretto verso la parte notte della casa passò a fianco del mobile bar. Una bottiglia di limoncello, inaugurata probabilmente durante l’estate, sembrò chiamarlo in quella giornata fredda.

Invitante.

Si soffermò a pensarci per non più di due secondi. Poi allungò una mano verso la bottiglia e con l’altra afferrò un bicchiere, scrollando le spalle. In fondo si conoscevano da anni e lui si trovava lì per fare un favore a Giulio. L’amico non se la sarebbe certo presa a male se lui avesse bevuto un sorso di liquore. E poi l’umidità della casa gli stava penetrando nelle ossa. Il liquido gli scivolò in gola e dopo qualche istante gli riscaldò lo stomaco e il sangue. Tornò in cucina, accese nuovamente la luce e fece scorrere l’acqua nel lavello in asterite. Sciacquò il bicchiere, aprì l’antina dello scolapiatti e vi posò il piccolo calice.

Poi riprese la ricerca della valigetta.

Si diresse verso la porta situata alla destra del caminetto. Spinse l’anta poggiando le dita sulla maniglia.

Oltre c’era un buio impenetrabile.

Con la mano cercò a tentoni l’interruttore come poco prima aveva fatto in cucina. Lo trovò e una luce gialla ebbe la meglio sull’oscurità, illuminando un lungo corridoio sul quale si affacciavano porte sia a destra sia a sinistra. La villa era ancora più grande di quanto sembrasse da fuori.

C’erano svariate coppie di porte. Più una, in fondo, posta in fronte a quella sulla quale lui ora era fermo.

Aprì la prima a sinistra e ancora un volta fu costretto a cercare l’interruttore a tentoni. L’architetto non era stato molto furbo. Avrebbe dovuto mettere i pulsanti fuori dai locali, in modo che chiunque li potesse vedere ed attivare prima di accedere alla camera buia. Scovò il bottone mentre terminava questa congettura e lo azionò.

Si ritrovò in una camera piuttosto ampia. Un letto matrimoniale con due comodini ai lati e un grande armadio in fronte. Sulla parete opposta a quella di ingresso c’era una finestra. A parte il mobilio la stanza appariva totalmente vuota.

Spense la luce e richiuse la porta.

Aprì quella di fronte. Stessa procedura per illuminare il locale.

Si trattava di una stanza da bagno, anche questa di dimensioni generose. Sanitari di qualità e vasca con idromassaggio.

Uscì nuovamente nel corridoio. Ormai aveva capito come era stata costruita la villa.

Ogni camera da letto aveva di fronte la stanza da bagno pertinente. Decisamente un ottimo modo per gestire una casa utilizzata fondamentalmente per trascorrervi le vacanze, magari in compagnia di amici. Modificò parzialmente la propria opinione sull’architetto.

Se aveva intuito giusto l’ultima porta doveva aprirsi sulla camera di Giulio e Marina. Il bagno doveva essere accessibile dall’interno. Ne era sicuro, perché ripensando alla posizione della villa considerò che da quella stanza si aveva la vista migliore. E la luce migliore, in quanto si trovava esposta a est. A guardare sorgere il sole.

Senza aprire altre porte si diresse verso quella situata in fondo al corridoio.

Sull’anta c’era una placchetta in ottone con incisa una scritta. Diceva: “Marina e Giulio”.

Non si era sbagliato.

Mentre le sue dita stringevano la maniglia di quella porta, la sua mente registrò appena il suono ululante che aveva da pochi istanti cominciato a rompere il silenzio e la quiete del paesello. Era pur sempre un abitante di città e certi rumori erano per lui all’ordine del giorno. Aprì l’uscio e, per l’ennesima volta da quando era entrato nella casa, tastò la parete all’interno della stanza alla ricerca del pulsante.

Lo trovò e lo premette.

Il buio fu ferito da un altro piccolo sole artificiale.

Ma la luce fu istantaneamente assorbita dalla scena che si parò dinanzi ai suoi occhi.

Come se il suo cervello non avesse voluto vedere, registrare, recepire le immagini davanti a lui.

Marina.

Marina, stesa sul letto.

Marina, gli occhi sbarrati e la bocca leggermente aperta in un’espressione di stupido stupore.

Marina, la delicata pelle del collo ricoperta di sangue non ancora rappreso.

Marina, la nuca sfondata da un oggetto pesante.

Cadde in ginocchio.

Cadde in ginocchio e non si rese conto che l’urlo di poco prima era prodotto dalle sirene di un’autopattuglia.

Non si rese conto del suono ululante che cessava d’improvviso, del rumore di pneumatici che frenavano con energia sulla ghiaia.

Non si rese conto di tutto ciò, ma capì.

Capì che Giulio aveva capito.

Capì che Giulio sapeva di lui e Marina.

Capì che Giulio gli aveva teso una trappola mentre la sera prima, dopo avergli telefonato, discorrendo del più e del meno si era fatto dire quando sarebbe partito per Genova.

Capì che Giulio aveva premeditato l’omicidio di Marina e che con freddezza cercava ora di attribuirne a lui la colpa.

Capì che gli investigatori avrebbero trovato le sue impronte nella casa.

Sulle porte, sui mobili, sui muri.

Sulla scultura in peltro (la scultura!).

Poi avrebbero rinvenuto le impronte di Marina sulla sua vettura; avrebbero interrogato gente disposta a testimoniare la loro relazione clandestina. Magari anche la recente rottura voluta da Marina.

Capì.

E si sentì perduto.

Mentre i poliziotti, le pistole spianate, facevano irruzione nella casa, il mare d’inverno giunse ad avvolgergli il cuore come una gelida coltre di neve.